Le due donne sono allo specchio, si guardano nel riflesso. Condividono una sessione di trucco: Gracie (Julianne Moore) svela a Elizabeth (Natalie Portman) i segreti del suo make-up. Dietro, in realtà, c’è molto di più. Perché Elizabeth vuole carpire altro: o meglio, carpire tutto. È un’attrice e si sta preparando a interpretare la Gracie di vent’anni prima, quando sedusse un minorenne iniziando con lui una storia clandestina che finì con un processo e il carcere, nonostante la gravidanza. Vent’anni dopo, il dodicenne sedotto, Joe (Charles Melton), è il marito di Gracie. Hanno tre figli.

Basterebbero gli sguardi incrociati di Natalie Portman e Julianne Moore per dare senso a May December, il nuovo film di Todd Haynes passato fuori concorso al festival di San Sebastián dopo aver sedotto Cannes lo scorso maggio. Lo studio dell’attrice sul suo soggetto è sempre più invasivo, più morboso: e Haynes costruisce sulle sue attrici una magnifica spirale di ossessione e insofferenza.

I titoli di testa scorrono su una colonna sonora che grida “Oscar!”. Ma è improbabile che arrivi alla nomination: curiosamente, non è originale. Haynes sceglie infatti la musica che Michel Legrand compose per Messaggero d’amore di Joseph Losey, riarrangiata da Marcelo Zarvos. Si adatta al film splendidamente. Anche se sembra promettere più di quello che il regista è disposto a dare: cariche di presagio, le note anticipano un’escalation che non arriva. May December è quello che qualcuno chiamerebbe un thriller dei sentimenti, forse. Ma senza espliciti colpi di scena: la detective, in qualche modo, è Elizabeth, anche se non ha un caso da risolvere. Dello scandalo tutti sanno tutto, Gracie ha pagato il suo debito con la galera: se ora è sposata con Joe, che ha superato i trent’anni, ed è pronta a mandare i suoi due gemelli al college, sono fatti suoi. Ma è chiaro che la ricerca di Elizabeth vuole spingersi oltre: con la cortesia di una gatta morta, scruta e scandaglia. La sua curiosità inizia presto a urtare i nervi di Gracie.

Sono diversi i momenti in cui Portman e Moore si confrontano allo specchio. Innanzitutto, nella sessione di trucco, una masterclass di recitazione: entrambe meritano la nomination all’Oscar (Netflix ha annunciato che la Portman correrà come protagonista, la Moore come non protagonista). Poi, nei bagni di un ristorante, in un dialogo più breve e più teso: impara a tenere le tue aspettative basse, insegna Gracie a Elizabeth, ed eviterai molte delusioni. In ogni scambio fra le due protagoniste, la tensione è più forte, anche se la frizione non è mai esplicita. Gracie getta la maschera solo con suo marito, è con lui che sfoga l’isteria repressa (memorabile il crollo nervoso della Moore quando un ordine delle torte che prepara a casa viene cancellato). Con Elizabeth, l’ostilità serpeggia in modo carsico. Si inizia nella scena in cui le due donne accompagnano la figlia di Gracie a scegliere un abito per la cerimonia del diploma, di nuovo riflesse negli specchi del negozio, mentre la madre influenza le scelte della figlia con subdola dolcezza. E si continua in cucina per una lezione di torte, con tanto di attenzione meticolosa alla disposizione delle ciliegie sul fondo della teglia.

A una prima visione, May December può sembrare vagamente fuori fuoco, qua e là incompleto nel non lasciare mai che il climax raggiunga un vero apice. Ma la seconda visione (l’abbiamo visto a San Sebastián per la seconda volta pochi mesi dopo) rimette in fila le aspettative e rivela un dramma squisitamente caustico. Lasciate attese e previsioni fuori dalla sala: il film non ha segreti nascosti da svelare. O forse ne ha uno talmente grande che nessuno lo nota, se non nel finale. Non siamo davanti alla migliore regia di Todd Haynes. Ma la ricetta cinematografica è straordinariamente ben bilanciata. Dal cast alla fotografia di Christopher Blauvelt, Haynes maneggia ingredienti di prim’ordine, e non spreca nessuna chance.

Lo humour è pungente, mai grossolano: in sala il pubblico festivaliero ride, ma la sceneggiatura di Samy Burch sparge il sarcasmo con parsimonia. Non servono battute alla Portman per dar forma alla perplessità di Elizabeth quando esamina le foto dei candidati (immaturi e non esattamente attraenti) a interpretare il giovanissimo Joe nel film, con cui probabilmente dovrà simulare una qualche forma di intimità.

Dopo la gloriosa prima mondiale sulla croisette, May December è stato comprato da Netflix per un lancio nordamericano a dicembre (in Italia dovrebbe arrivare poi in sala distribuito da Lucky Red). E pochi giorni dopo il passaggio a San Sebastián, il film ha avuto la sua première americana aprendo il New York Film Festival. È ovvio che sarà uno dei film della stagione.

Vera musa di Haynes dopo essere stata diretta da lui in Safe, Lontano dal paradiso, Io non sono qui e La stanza delle meraviglie, Julianne Moore è fenomenale. Non è una novità. Ma qui la Moore mesce sprazzi machiavellici e collassi emotivi in una prova di assoluta perfezione. L’epilogo in cui ricorda ad Elizabeth di avere una volontà di ferro è monumentale: Gracie ha fatto suo il ruolo dell’ingenua, ma maneggia i familiari e altera i fatti con freddezza inquietante. Titanica.

La Portman, che è anche produttrice, nasconde dietro i sorrisi di maniera un’efferatezza voyeuristica sempre più allucinata: è evidente che il gioco le sta sfuggendo di mano. La sua indagine familiare è esasperata. Un’assenza di scrupoli che svela via via un fondo di aridità ripugnante: Elizabeth non è qualcuno che vorresti attorno, nella tua vita privata.

Charles Melton non si fa intimidire dalle due star: la sua vulnerabilità è incredibilmente vera, ha qualcosa di ingenuo e toccante. Non essere messo in ombra da Portman e Moore è già una vittoria. Ma le due superstar sono troppo brave per trasformare May December in un two-women-show: si lanciano impavide in territori che non tutti i divi di quel calibro saprebbero (o vorrebbero) esplorare, e modellano con Melton un trinomio interpretativo in cui diventa difficile capire chi studia chi e chi usa chi.



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